nel suo secondo romanzo, joshua ferris ti obbliga a camminare.
ti piacerebbe molto leggere "non conosco il tuo nome" comodamente seduto nel vagone della metropolitana, sul sedile di un autobus o a letto prima di addormentarti, ma joshua ferris non te lo concede.
se tim cammina, tu cammini.
se tim si risveglia di fianco a sua moglie dicendole "è tornata", tu devi vestirti con lui e alzarti con lui e nel mezzo della notte camminare con lui.
è una malattia, la sua, forse. finirai il libro e non avrai risposta per questo andare incessante e prepotente del corpo che non ascolta la mente.
una mente che vorrebbe restare, riposarsi nella sicurezza di un lavoro di successo e di una famiglia accogliente. ma il corpo, questo, a tim non lo concede.
cammina perchè deve, camminiamo perchè dobbiamo.
senza rendercene nemmeno conto camminiamo dal momento in cui nasciamo al momento in cui moriamo.
non per piacere - non tutti almeno - cominciamo a camminare in una direzione, sperando che sia quella giusta, sperando che la destinazione sia la prima, ma anche l'ultima.
ma a metà strada per migliaia di volte nel corso della nostra vita siamo costretti a cambiare direzione, perchè la meta perde significato e consistenza.
nei momenti più ottimisti mi piace pensare che questo costante andare che mi rende così simile (e affezionata) a tim sia di tutti, appartenga a tutto il genere umano, in cammino costante da secoli e secoli.
ma è davvero così?
quella malattia che gli appartiene e contro cui lui lotta è una malattia di cui tutti soffriamo?
non c'è cura a quell'andare, perchè quell'andare è malattia e cura, è causa ed effetto, vittima e carnefice.
andiamo perchè andiamo, partiamo per tornare e per poi ripartire di nuovo.
cerchiamo concetti di casa abbastanza stabili da accoglierci per sempre, ma il "per sempre" non trova risposta nella stabilità.
non per tutti, almeno.
ti piacerebbe molto leggere "non conosco il tuo nome" comodamente seduto nel vagone della metropolitana, sul sedile di un autobus o a letto prima di addormentarti, ma joshua ferris non te lo concede.
se tim cammina, tu cammini.
se tim si risveglia di fianco a sua moglie dicendole "è tornata", tu devi vestirti con lui e alzarti con lui e nel mezzo della notte camminare con lui.
è una malattia, la sua, forse. finirai il libro e non avrai risposta per questo andare incessante e prepotente del corpo che non ascolta la mente.
una mente che vorrebbe restare, riposarsi nella sicurezza di un lavoro di successo e di una famiglia accogliente. ma il corpo, questo, a tim non lo concede.
cammina perchè deve, camminiamo perchè dobbiamo.
senza rendercene nemmeno conto camminiamo dal momento in cui nasciamo al momento in cui moriamo.
non per piacere - non tutti almeno - cominciamo a camminare in una direzione, sperando che sia quella giusta, sperando che la destinazione sia la prima, ma anche l'ultima.
ma a metà strada per migliaia di volte nel corso della nostra vita siamo costretti a cambiare direzione, perchè la meta perde significato e consistenza.
nei momenti più ottimisti mi piace pensare che questo costante andare che mi rende così simile (e affezionata) a tim sia di tutti, appartenga a tutto il genere umano, in cammino costante da secoli e secoli.
ma è davvero così?
quella malattia che gli appartiene e contro cui lui lotta è una malattia di cui tutti soffriamo?
non c'è cura a quell'andare, perchè quell'andare è malattia e cura, è causa ed effetto, vittima e carnefice.
andiamo perchè andiamo, partiamo per tornare e per poi ripartire di nuovo.
cerchiamo concetti di casa abbastanza stabili da accoglierci per sempre, ma il "per sempre" non trova risposta nella stabilità.
non per tutti, almeno.
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