cosa c'entrano i vestiti firmati con lo scioglimento delle calotte polari? o con gli immigrati rispediti da dove sono venuti?
qualcosa c'entrano.
l'ultima cosa che ho scritto si può riassumerla così: quel viaggio in nuova zelanda ha cambiato tanto la mia opinione sul rapporto tra gli esseri umani e la natura, da rendermi quasi indifferente a ciò che non conta (what doesn't matter).
ma cosa conta e cosa non conta, nella vita di un essere umano? su questo punto ognuno di noi ha la sua opinione: c'è chi vive per sè stesso, chi per gli altri, chi per la moda, chi per il lavoro. un buon punto di partenza per capire ciò che conta potrebbe essere la dichiarazione universale dei diritti umani.
strano ma vero, la dichiarazione non include il diritto al consumismo, che ogni cittadino occidentale degno di questo nome esercita diligentemente, mentre dall'altra parte del mondo faticano ad arrivare a fine giornata.
e se ci fosse una dichiarazione dei diritti dell'ambiente, non credo che includerebbe il diritto a deturpare, cementificare, inaridire ogni spicchio di terra libero.
questi, mi dirai, sono discorsi che riguardano i governi: sono loro che devono fare qualcosa! tocca a loro! noi così piccoli e impotenti non possiamo fare nulla.
noi, così piccoli e impotenti, stiamo rovinando, nell'ordine, l'ambiente grazie a cui viviamo, le vite di persone di cui ignoriamo l'esistenza e le nostre, di vite.
chiaro, semplice. indiscutibile.
capirai ora perchè avere vestiti di prada, nell'armadio, non è tra le mie priorità. nessuno dei beni di consumo di cui ci circondiamo ci rende persone migliori, ci aiuterà a galleggiare quando le calotte polari saranno sciolte o ci difenderà quando - e prima o poi succederà - nel terzo mondo ne avranno abbastanza del nostro tenore di vita.
viviamo da privilegiati, ma questa non è una novità. ciò che mi colpisce è la noncuranza con cui lo facciamo.
ci assolviamo da soli, dicendoci che non è possibile cambiare le cose, che non è sano essere così radicali (e pesanti), che abbiamo un limite di sopportazione per la disumanità che esiste fuori dai nostri (fragili) confini.
ci assolviamo a vicenda, con l'arroganza di chi sa di essere nel torto ma non vuole privarsi di privilegi acquisiti con secoli di colonialismi e sfruttamenti.
certo, noi allora non c'eravamo, ma ciò non toglie che siamo il prodotto di quella storia e continuiamo ad avallarla, rimanendo sempre uguali a noi stessi.
distogliamo lo sguardo.
cerchiamo di dimenticare. se è vero che non possiamo fermare massacri a migliaia di chilometri di distanza, è altrettanto vero che abbiamo il dovere morale di raccogliere quelle storie, farle nostre, diffonderle. negare il nostro consenso, come scriveva primo levi.
ma stiamo facendo l'esatto contrario; ci abituiamo lentamente ad assistere alle tragedie altrui e, altrettanto lentamente, diventiamo meno umani (lo diventiamo).
scegliamo il superfluo: le mode, i battibecchi politici, le nostre ansie e depressioni, l'insoddisfazione, i gadget elettronici.
nuotiamo in un eterno status symbol, e non c'è scampo nemmeno per quelli di sinistra, che del loro anticonformismo hanno fatto uno stile di vita. basta scegliere la zona giusta di milano, non fare confusione tra il quartiere isola e corso como, tra il gioia 69 e il torchiera.
l'ultima volta che sono entrata in un negozio era il 31 marzo. aspettavo di fare un colloquio di lavoro e pensavo ancora alla faccia rossa di mia nipote, appena nata. le ho comperato una maglietta. oggi siamo al 12 maggio, nel frattempo ho visto nelle vetrine del centro: un paio di ballerine turchesi, una borsa di h&m, un paio di jeans da zara, la nuova collezione camper e un adorabile vestitino nero. avrei potuto comperare, non l'ho fatto. non per problemi di soldi, ma per problemi di onestà: a essere sinceri ho tutto quello che mi serve.
a essere onesti, ognuno di noi, da questa parte del mondo, ha tutto quello che gli serve.
e ancora ci concediamo il lusso di sentire sempre la mancanza di qualcosa.
qualcosa c'entrano.
l'ultima cosa che ho scritto si può riassumerla così: quel viaggio in nuova zelanda ha cambiato tanto la mia opinione sul rapporto tra gli esseri umani e la natura, da rendermi quasi indifferente a ciò che non conta (what doesn't matter).
ma cosa conta e cosa non conta, nella vita di un essere umano? su questo punto ognuno di noi ha la sua opinione: c'è chi vive per sè stesso, chi per gli altri, chi per la moda, chi per il lavoro. un buon punto di partenza per capire ciò che conta potrebbe essere la dichiarazione universale dei diritti umani.
strano ma vero, la dichiarazione non include il diritto al consumismo, che ogni cittadino occidentale degno di questo nome esercita diligentemente, mentre dall'altra parte del mondo faticano ad arrivare a fine giornata.
e se ci fosse una dichiarazione dei diritti dell'ambiente, non credo che includerebbe il diritto a deturpare, cementificare, inaridire ogni spicchio di terra libero.
questi, mi dirai, sono discorsi che riguardano i governi: sono loro che devono fare qualcosa! tocca a loro! noi così piccoli e impotenti non possiamo fare nulla.
noi, così piccoli e impotenti, stiamo rovinando, nell'ordine, l'ambiente grazie a cui viviamo, le vite di persone di cui ignoriamo l'esistenza e le nostre, di vite.
chiaro, semplice. indiscutibile.
capirai ora perchè avere vestiti di prada, nell'armadio, non è tra le mie priorità. nessuno dei beni di consumo di cui ci circondiamo ci rende persone migliori, ci aiuterà a galleggiare quando le calotte polari saranno sciolte o ci difenderà quando - e prima o poi succederà - nel terzo mondo ne avranno abbastanza del nostro tenore di vita.
viviamo da privilegiati, ma questa non è una novità. ciò che mi colpisce è la noncuranza con cui lo facciamo.
ci assolviamo da soli, dicendoci che non è possibile cambiare le cose, che non è sano essere così radicali (e pesanti), che abbiamo un limite di sopportazione per la disumanità che esiste fuori dai nostri (fragili) confini.
ci assolviamo a vicenda, con l'arroganza di chi sa di essere nel torto ma non vuole privarsi di privilegi acquisiti con secoli di colonialismi e sfruttamenti.
certo, noi allora non c'eravamo, ma ciò non toglie che siamo il prodotto di quella storia e continuiamo ad avallarla, rimanendo sempre uguali a noi stessi.
distogliamo lo sguardo.
cerchiamo di dimenticare. se è vero che non possiamo fermare massacri a migliaia di chilometri di distanza, è altrettanto vero che abbiamo il dovere morale di raccogliere quelle storie, farle nostre, diffonderle. negare il nostro consenso, come scriveva primo levi.
ma stiamo facendo l'esatto contrario; ci abituiamo lentamente ad assistere alle tragedie altrui e, altrettanto lentamente, diventiamo meno umani (lo diventiamo).
scegliamo il superfluo: le mode, i battibecchi politici, le nostre ansie e depressioni, l'insoddisfazione, i gadget elettronici.
nuotiamo in un eterno status symbol, e non c'è scampo nemmeno per quelli di sinistra, che del loro anticonformismo hanno fatto uno stile di vita. basta scegliere la zona giusta di milano, non fare confusione tra il quartiere isola e corso como, tra il gioia 69 e il torchiera.
l'ultima volta che sono entrata in un negozio era il 31 marzo. aspettavo di fare un colloquio di lavoro e pensavo ancora alla faccia rossa di mia nipote, appena nata. le ho comperato una maglietta. oggi siamo al 12 maggio, nel frattempo ho visto nelle vetrine del centro: un paio di ballerine turchesi, una borsa di h&m, un paio di jeans da zara, la nuova collezione camper e un adorabile vestitino nero. avrei potuto comperare, non l'ho fatto. non per problemi di soldi, ma per problemi di onestà: a essere sinceri ho tutto quello che mi serve.
a essere onesti, ognuno di noi, da questa parte del mondo, ha tutto quello che gli serve.
e ancora ci concediamo il lusso di sentire sempre la mancanza di qualcosa.
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